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Sul segno indicale

 Posted on maggio 10, 2018      by Amm
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LA MAISON QUI N’EXISTE PAS

Cercavo di raggiungere la Fondazione HCB in Impasse Lebouis, quando mi ritrovo inaspettatamente a passeggiare in un quartiere dalle architetture moderne dove grattacieli protèsi con geometrie sinuose verso il cielo, si mescolano a edifici dai volumi squadrati, con superfici vetrate riflettenti, alcuni evidentemente adibiti ad uffici, altri, invece, inequivocabilmente residenziali.
Uno, in particolare, mi colpisce: ad occhio ha più di quattordici o quindici piani e la facciata, completamente realizzata in vetro cristallo, si estende sicuramente per qualche centinaio di metri. La mole imponente, e il reiterarsi di moduli abitativi sempre eguali, lo rende fotograficamente interessante e mi convinco quindi a scattare; ho una lente abbastanza “larga” ma, nonostante ciò, non riesco a inquadrarlo completamente: non posso arretrare perché alle mie spalle un lungo e ininterrotto muro me lo impedisce, mi sposto, lo aggiro, percorro un largo cortile, salgo su alcune gradinate, ma non c’è niente da fare, mi è impossibile inquadrare completamente la facciata. Ritorno al punto di partenza, alzo il tiro, ma le linee cadenti mi sconsigliano qualsiasi ripresa. Infastidito, desisto, senza però rinunciare ad almeno uno scatto, unico scatto, in verticale, di quelli realizzati senza alcuna convinzione.
Poi, sconsolato, abbandono la scena.
Una volta tornato a casa, osservo l’immagine e, quando sono sul punto di cestinarla, mi viene l’idea di modificarla: vuoi vedere che adesso riesco finalmente a prendermi la rivincita?
E così do avvio alla mia postproduzione più per scherzo, per prova, per curiosità che per convinzione, consapevole di compiere quasi un sacrilegio. Un abominio fotografico realizzato su una realtà che, paradossalmente, si trova a soli due passi dalla Fondazione di colui che – pur di dimostrare al mondo intero che mai e poi mai sarebbe intervenuto per modificare a posteriori un suo scatto – aveva preso l’abitudine, il vezzo direi, di lasciare intorno all’immagine stessa la cornice numerata del fotogramma, come prova di immacolata purezza. Non mi è mai piaciuto completamente questo mitizzare l’istante irripetibile, il “Decisive Moment”; l’ho sempre pensato quasi come un sotterfugio, un escamotage per far rientrare dalla finestra ciò che Walter Benjamin, con l’autorevolezza dei suoi scritti, aveva messo alla porta, quel concetto cioè di unicità che, per secoli, aveva accompagnato l’opera legittimandone il suo statuto d’arte, principio ridimensionato e relegato all’angolo dall’avvento della “riproducibilità” – vera e propria rivoluzione, risultato delle “nuove tecnologie”- che consentiva alla fotografia di affacciarsi al mondo, con i suoi caratteri di modernità, ma soprattutto di democraticità.
Mi rimane il sospetto che l’istante decisivo finisca, sotto mentite spoglie, per restituire alla fotografia, grazie a quella unicità affermata attraverso l’irripetibilità dello scatto, l’aura appena persa. E tutto ciò nonostante la constatazione evidente che il fotografo possa comunque riprodurre all’infinito solo l’immagine della realtà e non la realtà stessa.
Per non dire poi di un’altra vera e propria contraddizione che il “Decisive Moment” si porterebbe appresso, a mio avviso, da individuarsi nel concetto di realtà che da questo ne scaturirebbe: un concetto dove la realtà, la vita, non è vista nel suo trascorrere, nel suo continuo e inarrestabile fluire. Il Tempo – e ce lo insegnava già Eraclito – non si interrompe mai, neanche per un centoventicinquesimo di secondo, e la nostra esistenza, il nostro agire, che è tempo e che nel tempo è immerso, non si manifesta mai, paradossalmente neanche dopo la nostra morte, attraverso “un unico” momento. Come avere quindi la presunzione di rappresentare il continuum con tutta la sua complessità, la sostanza del vivere che è inarrestabile trasformazione, solo attraverso un unico e soprattutto irripetibile momento? Solo pensandosi, pur senza dirlo, artista che, nonostante affermi e sottolinei della fotografia il suo carattere di segno indicale, finisca col trasformarla, da vero e proprio demiurgo, attraverso lo scatto irripetibile, in vera e propria icona.
Nonostante tutto ciò, è perfino superfluo ribadire qui la indiscutibile grandezza del Maestro che non ha certo bisogno di essere riconosciuta da me, ma che è stata a lui attestata dall’intero Novecento.
Io però, in modo impertinente, e contravvenendo proprio al fatidico istante irripetibile, davo inizio comunque al mio lavoro, cominciando a duplicare in larghezza l’immagine e, facilitato anche dalla modularità dell’edificio – poco alla volta, solo con il copia e incolla, con variazione di tono e qualche volta di colore, togliendo, ma mai inventando ex novo – mi accingevo alla produzione, alla maniera di un novello Stevenson fotografo, del mio mostro: La maison qui n’existe pas.

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